ECCE FOLIUM

Delle foglie ci si accorge.

Pochissimi lo hanno fatto in passato[1], scarsi anche oggi nonostante gli immensi progressi conoscitivi in campo scientifico naturalistico, botanico. Accorgersi è un gesto che implica attitudine precisa. Vuol dire dedicare attenzione a ciò che non l’attira, e cambiare l’idea che ci eravamo fatti prima dell’ambiente circostante, o del paesaggio interiore di qualcuno. Viene dal latino corrigere, infatti, correggere (gli errata).

Non vediamo le foglie, non ci facciamo proprio caso. Sono indistintamente verdi, indistintamente ingialliscono l’autunno.

Dalle foglie nelle centinaia di migliaia di anni che ci precedono silenziosi abbiamo imparato ad estrarre medicamenti, nutrimento, pigmento, involucri (penso al packaging ante litteram per il pesce fatto di foglia di vite in cui al mercato incartano un pesce per Socrate) e supporti di scrittura e di lettura. I contadini sino a metà Novecento le rastrellavano dai boschi e le usavano come letto per far essiccare le castagne. Ci abbiamo ingozzato i bruchi da seta, coperto leggendariamente le pudenda in un Eden mille volte narrato e illustrato, ci abbiamo distillato il tè, guarnito i piatti per adagiarle subito alle loro cornici. Quanti ‘usi’ delle foglie, ingegnosi, sapienti, efficienti, ecologici e predatori. Eppure, non le vediamo, eppure non ce ne accorgiamo. Gli specialisti hanno svelato che grazie a loro, depositarie del tesoro clorofilliano, noi possiamo respirare su questo pianeta. Sono loro la nostra possibilità di respiro, di vita. Sono laboratorio di luce e di trasformazione inesausta, salvifica: assorbono anidride carbonica, ci restituiscono ossigeno. Anche i bambini lo sanno, oramai, ma sui loro libri illustrati gli alberi sono sempre una vaga macchia verde.

Non è questione di sapere per un fine utilitaristico, o classificatorio (che poi è di dominio), è questione di accorgersi del loro esserci, del loro apparire, crescere, avvizzire, andarsene sgravando i rami di un peso che diventerebbe insostenibile. Quale grazia, nel sapersene andare, quale forza nel farlo senza un grazie, in un congedo di volo, in un afono atterraggio.

Annalisa Di Meo se n’è accorta, e non da ora, quando il prefisso ‘eco’ è diventato salvacondotto opportunistico per qualsiasi proposta, analisi, produzione, acquisto. Questa artista architetto lavorava con le foglie, per le foglie, quando correva il rischio di apparentamento al decorativismo neo-Liberty. Bastava guardare, bastava accorgersi per sentire, per avvertire che era tutt’altro quella sua gentile ossessione, quello sguardo chino sul dettaglio, sull’invisto e il trascurato, sulla reinvenzione naturale.

Cominciò una ventina di anni fa a esprimere la sua ‘filìa’ per le foglie, e anche con quest’ultima collezione conferma la sua fedeltà, la sua dedizione appassionata, delicata, rispettosa e inventiva alle foglie. Ne coglie la forma in sé, la trama ora sottile ora ispessita di venature che tende a restare anche a consunzione della pagina vegetale di cui son fatte. Un merletto naturale, fatto di spago o tracciato da lievissimo tratto del pennello, fotografato e ingrandito come una sorpresa, come un affioramento di un segreto architettonico fragile ma preziosissimo, con impercettibili differenze di trama e ordito che potremmo rintracciare nelle creste delle nostre impronte digitali.

La creatività con cui Di Meo realizza le sue foglie, è segno del fatto che non c’è alcun intento mimetico, duplicativo, documentario. Ogni opera è un Ecce folium, una piccola fragrante scoperta di essenza, di anima, di struttura. Acquarellate e fotografate, o prelevate dai prati e avvolte da una seconda natura – un foglio di carta – che ne fa trapelare presenza filigranata (beyond the fog)[2], ricamate e quasi evocate con arabeschi di spago bianco, le sue foglie sono atto di cura per quel che resta, che mostra la sparizione della materia per logoramento, essicazione, marcescenza, decrepitezza, attraverso un esilissimo scheletro di vene e capillari, frammenti friabili e arrischiati di membrana e picciuolo, a volte. E ci sia chiede, accorgendosi di quel che resta, se sia proprio opportuno parlare di fragilità.

Siamo tutti foglie, corpi assegnati al divenire e all’oblio della consunzione. Il resto è fortuito risparmio dovuto a congiunture favorevoli di conservazione. Invece, però, che farne metafora cupa di rassegnata ineluttabilità di sapore ungarettiano, l’artista si fa linfa, procede controcorrente, non compiange la trista natura del resto ma lo celebra, lo cerca, lo forma. Qui Di Meo fa qualcosa di diverso, qualcosa di radicalmente altro, e di soavemente sovversivo: lei crea i resti, se ne fa annuncio, progetto, materia allestimento, e ci dice: mi prenderò cura di te, mi ricordo di te, ti rimetto nel cuore. Un frammento, un’intelaiatura sottopelle, si fa pars pro totum, diventa testimonianza di una vita intera, complessa, generosa, attiva. Da soli non potremmo neanche respirare. L’estetica del resto è profondamente morale, concretamente etica, e ci educa ad accorgerci, a non dimenticare persone e cose cui dobbiamo qualcosa di così essenziale da essere archiviato lassù in alto, tra gli scaffali polverosi dell’ovvio.

 

[1] Anticipatore fu Leonardo da Vinci, Trattato sulla Pittura, cap. VI Degli alberi e delle verdure.

[2] Leonardo inserì nel Codice Atlantico (Frammento 197 v) una foglia di salvia rivestita di olio e nerofumo.