Sulle ali degli alberi
Trame delicate e nodose di pagine fogliari, sembrano nelle opere di Di Meo più fragili di una foglia secca. Infatti sono incompiute, mancanti di alcuni lembi e porzioni. Incompiute, però, non significa rotte, né consumate. Sono state realizzate così, compiute proprio nella loro incompiutezza, e per quanto ovvia questa prima considerazione chiede attenzione, e una finezza, una certa maturità di sguardo più che di parola e di giudizio.
Da un lato l’artista è molto attenta nel far emergere le venature che non siamo mai soliti vedere né andare a cercare in una foglia. E’ precisa, ama il dettaglio e ce lo restituisce con innegabile perizia, senza gareggiare con la natura stessa (della foglia) ma omaggiandola.
Sono così nitidi i reticoli fatti di spago, che possiamo immaginarci le parti mancanti. L’artista ci fa completare l’opera con l’immaginazione, ci fa indovinare l’intero della foglia attraverso le sue parti. L’artista creando sottrae, e lo spettatore guardando aggiunge, indovina completa.
Tutto il mondo di Annalisa Di Meo sembra essere incentrato sul tema della relazione, della prevalenza segreta delle somiglianze sulle differenze manifeste. Una foglia appartiene al mondo vegetale, l’ala di una farfalla a quello animale, ma l’artista non fa anatomia dell’insetto, cioè come dice letteralmente la parola non lo fa a pezzi: lo considera in una sua parte, l’ala, che lo mette in intima comunicazione con la foglia, li rende coappartenenti al medesimo universo: quella percezione, quello dell’estetica.
Il corpo di queste relazioni è spesso trasparente, di cellophane, della garza, della carta, del plexiglass, della matita, è leggero e trasparente fino a lasciare affiorare l’opacità. Opacità di che cosa, ci si chiederà. Quella del supporto, pronto ad avvertirci che non si tratta di reperti fossili, di resti conservati o salvati, ma di nuove rappresentazioni artistiche. L’arte è tale perché artificiale, appunto, e non gioca con l’illusione, almeno non più nella contemporaneità. Con gli strumenti tecnologici che abbiamo a disposizione, quale sarebbe il senso di competere con la natura in verosimiglianza? L’arte che una volta imitava, anche virtuosisticamente e mirabilmente, oggi è scalzata dalla sua esatta riproduzione fotografica, solo per fare un esempio.
Vediamo tutti molto bene che quella di Di Meo non è una vera foglia, non è una vera ala, e al contempo vediamo con altrettanta chiarezza che di ali e di foglie si tratta. E’ con la sua tecnica, con i suoi materiali nuovi e condivisi con altre pratiche altri mestieri, che l’artista opera una persuasione naturale. Quelle venature in rilievo che tanto si assomigliano potrebbero far nascere le ali da un albero, da un ramo. Le farfalle potrebbero volare con quelle foglie leggere, e posarsi dove sarebbe bello che sostassimo anche noi, talvolta: non sulle foglie, ma sul loro risvolto, su quella parte di reale e di mondo che ci sfugge sempre, come è naturale che sia, a meno che per conoscerlo meglio non usiamo l’artificio di rovesciare le cose di girarle.
Un’altra piccola considerazione, è che dell’albero questa artista non considera il fusto, né il fiore né il frutto (esito e scopo di tutta la vita della pianta), ma qualcosa di ben più accessorio, come le foglie. Le legge come una pagina, appunto, come dice del palmo della foglia anche il linguaggio botanico. Si occupa con grazia e insistenza di dettagli di marginalità. E’ forse con la stessa sensibilità per ciò che non è protagonista, soggettivo per eccellenza e non denotante con immediatezza che un altro dei suoi soggetti preferiti è il sogno.
Del sogno Di Meo dà immagini composte geometrico more, campiture di colori ordinatamente scansite in mosaici di forme nitide, in un’architettura misteriosa di segni e disegni in cui brilla un segnale cromatico: il rosso. Una traccia palpitante che è premessa e esito del sogno, una fragranza ottica circondata da un alternarsi lattiginoso, ambiguo di consistenza e inconsistenza di bianchi. Quel raggrumarsi magmatico di colore scarlatto, da forma si fa segnale di una presenza ineludibile, in aggirabile.
Ci piacerebbe fosse il nostro Io, ambiguo anch’esso, memore e immemore, razionale e irrazionale, emotivo, contraddittorio, in movimento, in evoluzione e in trasformazione. Ma un Io.
Cristina Muccioli